L'invisibile spaghetto ai pachino

11.03.2013 00:04

Scrivi Lady, scrivi, che più scrivi, più sei brava, più ti dicono di sì. Tanto che importa, a chi legge, se lui c'è stato, o non c'è stato e lui chi è (cit. adattata)


Ci vediamo ad una stazione della matropolitana di Roma, sotto un cielo senza intenzione di smettere di lanciarci acqua e tanta, infinita, speranza, nostra, che smetta. Io arrivo volutamente in anticipo di 30 minuti. Ma alla sua domanda, dopo, se ero lì da molto rispondo, credo, di esserci da pochi minuti.

L'anticipo di 30 minuti è una cosa che fa star bene me. Sono i miei 30 minuti, tutti per me, per le mie ansie e le speranze. Sono 30 minuti che, qualsiasi cosa succeda, rimarranno miei. In quei trenta minuti penso di vederlo 4 volte e in nessuna è mai lui. E' la mia mente che gioca. Taro i passanti, mi chiedo se tra quelli che mi guardano ci sia qualcuno che sta aspettando il suo appuntamento al buio e si chiede se sia il mio sguardo, che fruga i visi, quello che sta aspettando. Ma io so perfettamente di non esserlo. Taro le passanti e mi dico che "ecco, quella dovrebbe uscire con lui, non io". Che pensiero idiota, lo so.

All'avvicinarsi dell'ora concordata esco a fumare una sigaretta, sotto la pioggia ma con l'ombrello, soprattutto per non farmi trovare dentro, incapace di star ferma, girare in tondo tra le colonne. La deviata, mi dico, la fai con calma poi.
Come è ovvio che accada quando smetto di chiedermi dove lo vedrò, se mi riconoscerà, se lo riconoscerò io, lo vedo guardarmi, da dei gradini, molto incerto. Ci metto una frazione di secondo a capire che è lui; non so nemmeno cosa me lo suggerisce così bene, veramente, non saprei dire, ora e razionalmente, quale dettaglio. Però lo so. Non è magia, è istinto e riconoscimento. Mi chiedo se il suo, anche qui parliamo di secondo, dubbio sul se fossi io o meno sia dovuto a sorpresa o delusione ma ho poco tempo per pensarci. Mentre lo saluto penso: “ehi, e la barba che immaginavo?”. Ma non sono delusa nemmeno un po'. E' bello.

Ci salutiamo all'intero e subito mi rimprovera: “e meno male che il tempo era bello eh?!”. Non dice il mio nome nemmeno una volta nella serata, e un po' mi dispiace: magari sentendoglielo dire ne avrei ricordato il suono, poi, con piacere, io che non amo il mio nome.

Nei giorni precedenti mi ero data alla ricerca del luogo giusto. C'erano due opzioni. La prima era la migliore, ma più distante. La seconda ero sicura di saperla trovare con facilità. Nemmeno a dirlo sono una cretina. Decido per la seconda, più che altro perché con la pioggia non penso che a lui vada molto di camminare. Lo troviamo subito, penso, ci sediamo e magari smette di piovere. Io potrei camminare anche per tutta la sera, veramente, non mi importa proprio, sto guardando le stelle (leggi: ho un'espressione demente e di adorazione) al di là dei nuvoloni di pioggia e tanto mi basta.
Non trovo il posto. Non mi ricordo la via, non mi ricordo il nome, non mi ricordo nulla.

Pazienza. Lui conosce altro. E ci andiamo. "Se puoi camminare ovviamente. Le scarpe delle donne sono sempre uno strumento di tortura”. Io gli vorrei dire che credermi così poco intelligente da mettere scarpe scomode quasi mi fa dispiacere ma non quanto essere inserita in quel gruppo indistinto che lui identifica con “donne”, ma sto zitta perché sono una frana.

Facciamo un tratto di strada e prendo in pieno una pozzanghera. Mi voglio sotterrare ma come al solito lo penso troppo presto. Poco dopo, infatti, torniamo indietro sulla stessa strada e io prendo in pieno la stessa identica pozzanghera. Nemmeno un'altra, no, la stessa.
Lui non ne ride. Mi avrebbe sollevata.

Lui mi parla. Di tantissime cose. Le ho annotate tutte, non credo di poterne dimenticarmene nemmeno una, sembrano incise. Qualsiasi frase, qualsiasi inclinazione. Ho ripercorso troppe volte tutto nella mente, forse.
Quando per caso, camminando, gli ostacoli della strada ci costringono a non camminare più fianco a fianco, lui si interrompe e ricomincia a parlare solo quando torno vicino a lui. Una tale delicatezza di comportamento da urlarmi nell'orecchio fracassandomelo.

Camminiamo e camminiamo. Avessi messo delle scarpe scomode non avrei più i piedi. Ho una finzione di tacco però, veramente finzione, che fa un baccano assurdo sui sampietrini della città. Ogni passo mi fa vergognare perché ho il terrore che lui pensi che per far la figa mi sia messa chissà cosa. Giuro, signori miei, che sono le scarpe più comode che io abbia.

E' attraversando il ponte, forse, Sublicio (ponte di legno, famoso nelle versione di latino, mi dice lui e io lo bacerei se non fossi l'automa che sono), che succede, a mio avviso, per la mia mente orribile, la cosa più bella della serata. In pratica e molto brevemente io finisco contro un tipo perché sono un'imbranata. Allora mi giro e mi scuso. Lui mi guarda e mi dice: “ma tu non lo potevi vedere, eri di spalle, lui doveva star attento”. Io mi scuso, a lui non l'ho detto ma qui ho tutto il tempo per farlo, perché Roma è una città senza gentilezza, io la mia ce la metto tutta, di chiunque sia la colpa del fatto, generalmente. Poco importa, comunque, se avesse ragione il lui con cui uscivo o meno, importa che l'ho sentito “scusarmi”, essere dalla mia parte. In una faccenda senza importanza eh, ovviamente, ma io impazzisco per il principio.
Lo bacerei un'altra volta. Ma lo penso solo a posteriori, non come per la storia del ponte delle versioni di latino.

Camminiamo ancora e poi succede il fattaccio dell'ombrello. Lui entra in un ristorante a chiedere due posti. Il ristorante mi angoscia perché lo vedo molto stretto e temo di non entrare nemmeno dalla porta, quindi ringrazierò, poco dopo, che fosse pienissimo (ma questo a lui non lo direi mai, figuriamoci a voce). Bene, ma questa è una divagazione rispetto al “fattaccio dell'ombrello”. Entrando per chiedere il posto lui mi chiede di tenergli l'ombrello. Io prendo l'ombrello e la mia mente pensa ad un'unica cosa: non gli toccare la mano. Trasferisce alle mie mani quindi l'imput di esibirsi da trapezzisti per far in modo di escludere qualsiasi, minimissimo, contatto.
Quello che volevo? Avere una scusa per toccarlo. E al dunque, quando quella scusa me la fornisce lui involontariamente, io che faccio? Faccio di tutto, ma proprio di tutto, per non coglierla. Perché? Perché, oltre al già citato mio essere, una stupida, la paura che a lui desse fastidio, la paura del suo rifiuto meglio, vale molto di più del mio desiderio.

Nel ristorante di cui sopra, già detto, non c'è posto. Camminiamo ancora un po'. Io scopro di essere un'ignorante immensa su Roma e anche se lui, infondo, non me lo fa pesare tanto quanto dovrebbe, mi convince a comprare, appena possibile, domani spero, una mappa e girare un po'.

Ci fermiamo poco dopo in un altro ristorante. Secondo me nemmeno male. E arriva il tanto temuto momento della cena. E' una fortuna che io non pensi allo stato dei miei capelli, cosa che farà solo tornata a casa. Penso a togliermi il giacchetto, penso che è finita la maschera, penso che ora lui si metterà a strillare e scapperà via. Non urla e non scappa. Si siede dopo di me (e io mi chiedo se sia casuale o voluto). Senza giacchetto lui è magro, magrissimo. Indossa un maglione che mi piace, noto le unghie mangiate e una certa, forse, tensione. Tensione che vorrei eliminare ma non posso perché il terrore ha messo una tenda nella mia testa da qualche giorno.

Guardiamo il menù. Io mi rendo conto che non so leggere, o almeno non mi ricordo di come si fa. Scuoto la testa anche scrivendole 'ste cose, state tranquilli. Lui decide per un piatto per nulla male: tonnarelli carciofi e bottarga. Io, preparatevi per l'apice della serata, decido per un piatto di spaghetti coi pachino. L'unica cosa che mi ricordo di aver letto, praticamente. Un piatto senza pretese che, secondo me, esprime a meraviglia la serata: cercavo di rendermi invisibile. Ci sono riuscita bene e poi me ne sono lamentata anche. Lui mi dice: “non ti sembra una roba un po' troppo articolata?”. Lo bacerei anche sta volta, ma lasciamo perdere che tanto mi pare chiaro che io non avrei fatto altro per tutta la sera.
Non gli propongo di assaggiarlo e capite bene perché. Finiamo il piatto in totale sincronia. E' un evento così raro che, raccontandolo a chi mi conosce, quasi non ci credevano. Io finisco sempre tre ore dopo tutti gli altri, esasperandoli. Quando glielo racconto, a lui, mi pare non crederci molto. O forse sono paranoica e penso che non mi crede perché a guardarmi, forse, io non lo direi. Non lo sapremo mai.

Mi chiede se voglio un dolce. Io dico di sì. Risposta che stupisce anche me. Una cosa mi sono giurata prima di andare: non farò quella a dieta. Voglio un dolce perché penso che lo voglia lui. E quando lui dice che però se non mi offendo lui mi guarda, goccioline gelate mi cadono dietro il collo e la mia mente parte a raffica: “eh? Ingannatore! E ora che faccio? Se dico che non lo voglio più lui penserà che è colpa sua e mi penserà così inutile da non essere sicura nemmeno di volere un dolce. Se lo prendo lui mi guarderà mangiare e mangerò più di lui, che è magro, e tutto il mondo entrerà nel ristorante per dire “guarda quella cicciona quanto mangia!”. La costruzione della mia mente, così ben strutturata, viene interrotta dall'arrivo del cameriere che ci elenca i dolci. Non li sento tutti e decido per una crostata di ricotta e pere. Mi piace molto, solitamente, e mi pare abbastanza una roba fattibile. Il cameriere ci porta un piatto e due forchette. Adesso lui si alzerà urlando, lo so. Pensare di mangiare dal mio stesso piatto? Come minimo deve disgustarlo. Infatti lui non mangia. Mangio io. Lentamente. Non è che mi piaccia molto, veramente. E' troppo spessa. La faccio meglio io. Ma non lo dico. La fetta è enorme, a metà, forse più di metà, mollo. Lui mi guarda, dice qualcosa e poi, con la sua forchettina, ne assaggia un po'.

Arriva il momento, per me, più temuto della serata: il conto. Io sono un pochino strana sulla faccenda. Odio maneggiare i soldi e parlare di soldi, non mi piace che lui paghi la cena. Mi sento in imbarazzo, semplicemente. Allo stesso tempo se non si offrisse rimarrei male. Sono un po' all'antica sulla storia, forse troppo. Se esco con un uomo e quello mi fa pagare mi sento poco donna. Non è una questione di soldi, come pure sembra, è una questione, meramente, di galanteria. E la galanteria per me è molto. Lui si offre e io apprezzo infinitamente. Però metà cena la vorrei pagare. Oramai si è offerto, mi va benissimo. Ci provo ma lui mi guarda male e mi dice: “non farmi fare brutte figure”. Lascio fare e gli tengo un po' il muso, sono colpita, molto e vorrei “ripagare”. Lui dice che non è un debito. E mica intendevo che lo fosse, semplicemente vorrei fargli capire un “grazie” non solo con le parole. Baciarlo, già detto, mi pare sempre una bella soluzione ma lui non condividerebbe. Dico grazie qualche decina di volte.

Facciamo altri due passi e io fumo una sigaretta. La prima in 5 ore. Parliamo ancora un po', anzi, parla lui. Mi dice una cosa che mi gela il sangue: “ma sempre tutto 'sto entusiasmo dimostri?”. Perché non vede che mi saltella lo stomaco? Perché non lo vede dagli occhi tutto il mio entusiasmo? Non son brava io, lo immagino, eppure sono entusiasta, sono contenta, vorrei che non finissero mai quelle ore.

Prendiamo la metro per tornare indietro. Ci salutiamo sul vagone mezzo vuoto e mezzo distrutto. Un altro bacio sulla guancia. Tornassi indietro, ma forse è troppo facile da dire, mi permetterei di sentire cosa provavo, il frastuono dell'emozione me lo ha vietato. Tornassi indietro, gli cingerei la spalla con una mano. Tornassi indietro gli direi quello che non gli ho detto. Non tutto, qualcosa.

Mi si stringe lo stomaco a vederlo andar via, l'emozione che ho trattenuto così tanto arriva in piccole gocce di pioggia sulle guance e la poeticità del tutto si spegne mentre penso che forse non lo rivedrò mai più. Troppo presto per dirgli addio, troppo tardi per uscire da quel tentativo, riuscitissimo, di fingersi invisibile che mi sono imposta.

Va via.

Ma non è un addio. Volere non è potere e magari non serve a niente, però è comunque il poterci riprovare, almeno tu, per essere sicura di averle tentate tutte.

L'invisibile spaghetto ai pachino

R: R: R: R: Lady Marica

LadyMarica | 12.03.2013

io sono d'accordo con Silver, Odi. Un film, visto la prima volta, non sarà mai come vederlo una seconda volta. Forse la seconda sarà la seconda e basta, e non la terza, ma nemmeno, mai, la prima.

R: R: R: R: R: Lady Marica

O | 15.03.2013

Non so se parliamo la stessa lingua, però provo a specificare: stiamo parlando di sensazioni, vero? allora la particolare sensazione che hai provato guardando un film particolare (che sia un film di fantascienza o l'ultimo di Tarantino) ovviamente non la puoi provare rivedendolo, ma la puoi provare guardando un altro film. Il film è diverso, la sensazione può essere la stessa

Idem con una persona. persone diverse posso darti, in tempi diversi, le stesse piacevoli sensazioni, l'importante è crederci.

A me, per esempio, un abbraccio continua a darmi la stessa sensazione di pienezza oggi (o meglio, diciamo che me la darebbe se trovassi qualcuno da abbracciare) come 10 o 20 anni fa

R: R: R: R: R: R: Lady Marica

Silver Silvan | 17.03.2013

Hai ragione, è questione di crederci o meno. Io non ci credo, infatti.

lo so

LadyMarica | 11.03.2013

So che è lungo, so che parlo sempre di quella cosa, so però che dovevo scriverlo per dare uno spazio alle cose a cui spazio reale non ne ho dato. Sbagliando.

<< 1 | 2

Nuovo commento