Sul perdono

16.04.2013 19:11

Gioire del “bello” (che non si esaurisce certo nella dimensione estetica) credo che sia un'inclinazione umana per nulla secondaria a quella di mangiare, bere e riprodursi. Ovviamente nel mondo moderno, chissà se primariamente in quello occidentale, il bello viene comunemente confuso con la dimensione estetica, ne viene risucchiato e finisce col coincidere negli attori, le ballerine o le veline del caso.

Famosa è la reazione di Standhal entrato nella basilica di Santa Croce a Firenze. Svenne, pianse, si sentì accelerare i battiti cardiaci e disse in merito: «Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere».
Il bello fa perdere consistenza alla vita. E allora ne va cercato altro.


Certe volte, mi pare, che il bello, si annidi con forza nella differenza delle cose. Differenze non tanto in termini di dicotomie (l'alternativa vero o falso insomma) quanto più in termini di sfumature possibili.
I termini che si usano tanto frequentemente e con tanta poca cura, ogni tanto, nascondono delle piccole sfumature che te li fanno amare di più, che te li fanno toccare veramente. Le parole si usano e basta solitamente, non le si pensa. Oddio la smetto di allungarmi. Però è un sopruso, secondo me, usare solo le parole, non goderle, non pensarle, non indagarne, appunto, le sfumature.
Smetto col generale e vado allo specifico.

Oggi pensavo, spinta da una lezione mattutina e una lettura, alla parola “perdono”.
Parola complicata, nella vita umana personale di tutti i giorni, nella vita psichica (e troppo spesso, se posso, questi due ambiti mica coincidono: quante volte si vorrebbe perdonare qualcuno ma si dice qualcosa che suona come “però non posso” ?) E' una parola complicata anche per il carattere, la dimensione, che il cattolicesimo le ha impresso, almeno in occidente. Perdonare è, in una qualche parte dell'immaginario pubblico, “divino”, appartiene a Dio che, nella sua infinita bontà, perdona i peccati degli uomini. Ovviamente, come quasi tutti i concetti cattolici, questo di perdono, “trasmesso” ai seguaci cattolici quasi con l'imbuto, non ha una minima sensatezza nemmeno evangelica. Gesù dice più volte, nel vangelo, che il perdono appartiene agli uomini. Il perdono non è, quindi, di Dio e non deriva da lui.
Matteo 18, 35 : “E quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate”.
Solo perdonando gli uomini possono pensare di essere perdonati per le loro colpe anche (in secondo luogo quindi) da Dio.
Il perdono non è qualcosa di divino e disceso in terra ma è qualcosa che esiste, quando esiste, tra gli uomini. E' un fatto umano.

Ma non dico 'ste cose tutte per annoiarvi, no. Abbiate ancora pazienza.

Al contrario della vendetta che è la reazione naturale a un torto subito, il perdono “accade” cioè non è scontato, non è un corso naturale (ma qui, e per me, naturale non è affatto sinonimo di cosa buona, anzi). In questo senso, ma i cattolici per fortuna non lo sanno, si può dire che nel vangelo Gesù insegna la libertà: la libertà di interrompere la catena azione-reazione trasformandola in una catena di azione-azione (dove, se la prima è il torto subito, la seconda è l'azione di perdonare).

Esistono dei mali, che Kant chiama mali radicali, che sono i mali che non possono essere perdonati e allo stesso tempo non possono essere puniti. Troppo grandi, questi mali, per una delle due scelte. Sono i mali della storia, le vergogne dell'umanità, qualcosa di penoso e degradante.

Perdonare, oltre a essere tutto ciò per tradizione e ragionamento, alle volte, “quando si eccede”, ha una caratteristica negativa. Diventa il non curarsi della propria ferita. In quel caso usiamo il termine “perdonare” quando in realtà non stiamo minimamente facendo i conti con il torto. Non lo sentiamo ecco, non ce lo lasciamo sentire. Perdoniamo mentalmente senza dare legittimità al nostro essere stati feriti dal torto. Ma questo è semplicemente un errore di pensiero.
Gesù, il più considerato “perdonante” della storia umana (colui che perdonò i suoi uccisori, insomma, col celebre motto di “perdonali padre perché non sanno quello che fanno”) non era estraneo alla rabbia di un torto, non ne era indifferente. Famosa è la storia della cacciata dei mercanti dal tempio. Non li cacciò con troppa diplomazia, pare.

Io sono atea e lo ripetiamo per bene, ma non sto qui legittimando o depotenziando la figura (di esistenza storica sicuramente differente dalla tradizione cattolica) di Gesù Cristo. Faccio un esempio che secondo me è esplicativo. Persino Gesù prima di perdonare dava la sua legittimità alla rabbia, al dolore di un torto, alla frustrazione. La differenza, ed è qui che torniamo al punto, è sul tipo di perdono che offriva poi. Non un perdono di tipo puramente personale, puramente sentimentale, più che altro era un perdono pubblico.
(E ancora ho difficoltà e devo questionare sui termini: pubblico che non significa esteriore o di facciata ma che significa, semplicemente “politico, esterno al privato”.)

Un altro esempio mi permette di rendere meglio conto di quel che intendo. Ma son sicura che a questo punto vi sto annoiando. L'esempio è di Nelson Mandela. Le cui gesta sono conosciutissime. Dopo aver passato qualcosa come 30 anni in carcere per la sua lotta contro l'apartheid Mandela perdonò i suo carnefici ma non nel senso, insensato e mitico più che realistico, di un perdono personale quanto più nel senso di un perdono pubblico essendo il male che questi uomini avevano procurato troppo più grande di una possibile punizione e non potendoli, allo stesso tempo, perdonarli privatamente, nel torto, disumano.

Il predono pubblico, ho maturato oggi, è un gesto, grande, che si deve alla moralità. Che si deve, insomma, per non scatenare la continua vendetta della vendetta della vendetta. Il perdono privato, individuale, è un'altra cosa, è qualcosa che deve far i conti con la ferita individuale e le sue conseguenze. 
Stando a esempi meno eclatanti se viene ucciso un famigliare, parente, amico il giusto compromesso è, forse, perdonare pubblicamente (cioè non cercare vendetta, ripeto, non perdonare di facciata e nemmeno non pretendere la pena, solo non cedere al facile bisogno di violenza sulla violenza) ma preservarsi il dolore del "torto". Il perdono non deve, sempre, invadere entrambi gli ambiti. 

Vi sembreranno chiacchiere e non molto altro. Lo sembravano anche a me. Ma secondo me son chiacchiere importanti. Perdonare i torti e non “far di tutto per avere una vendetta” mi pare un ottimo principio, in generale, da seguire. Il problema sembra arrivare quando il perdono viene prima ed è preventivo del sentire il torto subito. Il torto diventa mentale e il perdono pure. Oltre a non essere un vero perdono questo tipo di atteggiamento è alla base del non conoscersi, del non difendersi e, per dirla abbastanza scontatamente, del non rispettarsi.

Sul perdono

R: Alternativa valida..

LadyMarica | 16.04.2013

questa è la degenerazione della pace. La pace è costruire, secondo me, assiomi morali non passabili quindi di diversità storiche, geografiche o altro. Ma sempre secondo me.

R: Alternativa valida..

Silver Silvan | 17.04.2013

Mmm, è il presupposto alla base della politica estera americana.

Quelli che perdonano..

Giamba | 16.04.2013

Quelli che perdonano

sono quelli che subiscono di più,

perchè quando si tratta fi fare qualcosa di male

si scelgono sempre loro come vittime pensando:

"Tanto perdonano".

Per quello i preti diffondono il perdono

tra le masse di coglioni,

per facilitare il compito del potente di turno.

R: Quelli che perdonano..

LadyMarica | 16.04.2013

questo, sempre secondo me, pur essendo molto reale (ma che realtà hai scelto? il cattolicesimo che di reale non ha nemmeno -E SOPRATTUTTO- le basi?) è una minima parte. Avere consapevolezza di cosa sia il perdono, forse, e dico forse, può aiutare a farne recuperare l'essenza.
O almeno, a me la riflessione ha fatto quell'effetto.

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