di tutte le virtù ... le più indecenti (licenza poetica, andrebbe al singolare, lo so)
Il quarto tipo
Lo so che scrivo a intervalli irregolarissimi e pure rari. Voi non ve ne andate. Che non è un ordine, ma una richiesta.
LadyMarica, che tipa, esce con un nuovo ragazzo. Il quarto in due settimane. E se il commento sui primi 3 viaggiava tra agghiacciante e potenzialmente pericoloso il commento sull'ultimo ha tante poche parole che mi ci tocca scrivere un post intero.
Il quarto tipo, che poi è un soprannome che gli calza tanto perfettamente, è un fiorentino, con casa anche a Roma, di 24 anni. E se esci con un 24enne, signori miei, qualcosa gliela devi perdonare. Sì, ma qualcosa!
Ci vediamo, come al solito faccio, a una certa fermata della metropolitana.
Lui è più carino, rispetto alle foto che avevo visto. Io porto un paio di pantaloni rossi che forse mi potevo risparmiare. O così penso. Ma in realtà sono adorabili. Infondo il programma è quello di visitare un museo di arte contemporanea ovvio che posso vestirmi da persona strana (il museo in questione è il Macro a via Nizza 138. Che, purché ci andiate senza 24enne io vi consiglio molto. Bellissima costruzione, collezioni incantevoli, personale gentile e qualificato).
Io non ho assolutamente idea di dove si trovi via Nizza e il suo museo, il quarto tipo invece è deciso, sicuro e molto preparato.
Arriviamo al museo tra imbarazzanti silenzi e la piacevole sensazione, mia, che mi piaccia. Parliamo poco, di filosofie sulla vita e comunissime cose. Il quarto tipo mi racconta della sua AUDI e mi mostra, fingendo di non mostrarlo, il suo cellulare dei superlativi: nuovissimo, costosissimo, accessoriatissimo. Io odio le automobili come i cellulari piattissimi (sempre a superlativi) ma, per la teoria di cui cianciavo prima, vista la sua giovane età sono pronta a perdonarglielo. Che poi, più di cellulari e auto detesto l'esibizionismo materiale.
Arriviamo alle casse del museo e lui mi prende la mano. Incredibile, signori miei, è che stavolta, a differenza delle altre tre, non mi infastidisce ma ne son quasi contenta. Sarà che mi ha chiesto se mi “dava noia”: la sfumatura fiorentina mi ricorda qualcosa di dantesco e piacevole.
Lui prende i biglietti. Io tiro fuori la mia parte ma lui mi guarda e mi dice: “nono, non scherziamo”.
Io insisto però. Un conto è pagare un caffé, un altro è pagare un museo. Soprattutto se nemmeno ti conosco abbastanza. Ma lui, fermo e deciso, insiste a sua volta e mi liquida con quel generico: “vabbe', ci pensiamo dopo” che significa sempre (!) “lascia stare”.
Vediamo la prima sala del grande museo e io son quasi soddisfatta. Complice il fatto che mi piaccia enormemente il museo e che la conversazione sulle opere sia fluida e poco tirata, gli concedo di camminare tenendomi un braccio intorno alla schiena.
I suoi movimenti sono piacevoli. Lenti, sulla stessa lunghezza dei miei. Non azzarda nulla, non cerca di baciarmi, ogni tanto mi sfiora una ciocca di capelli. Che è tutto quello che sono pronta a volere sul momento.
Finita la prima sala saliamo al piano superiore. Guardiamo un'altra sala e incrociamo un'uscita. Allora mi viene in mente che potrei fumarmi una sigaretta. Glielo dico e usciamo. Lui mi guarda e mi domanda se gliene offro una. Ma certo, mi pare il minimo che io possa fare. Fumiamo. E parliamo del più e del meno. Tutto procede bene.
Poi lui dice una cosa, una cosa che non colgo. Gli chiedo un generico “come?”. Ed è lì che lui fa l'errore che rende il resto della giornata un costante e martellante “voglio morire”.
Mi dice, testualmente: “caccia fori i dindini”. Mi sta chiedendo i soldi del biglietto, insomma. E non ci sarebbe niente di male, se non fosse che me li sta chiedendo (lo avrei detto io a fine giornata), me li sta chiedendo dopo aver recitato una scena iniziale lunga e noiosa, e, soprattutto, me li sta chiedendo in una forma verbale così antiestetica che potrei morirci sopra.
Prendo il portafogli e gli do i soldi.
Mi dice una cosa come “mannò, dammi 10”. Ti darei anche i centesimi oramai. E infatti gli do la metà esatta del prezzo. Dodici euro. Solo una volta a casa, ho scoperto che avrei dovuto dargli 10 euro e 50 centesimi. Il prezzo del biglietto per i residenti a Roma. Oltre alla beffa, come si dice, pure il danno.
Eh, LadyMarica, ma parliamo di spicci! Penserete voi. Ma questo solo perché non sapete come continua.
Continuo a perdonare per la giovane età. O quasi. La conversazione riprende interessante, lui continua a essere piacevole. Penso che posso passarci sopra. Alla scortesia di quella frase che mi martella nella testa continuamente. Brutta frase, forse solo detta male.
Finiamo di vedere il museo. Di “da raccontare” c'è solo una conversazione ai limiti dell'assurdo su un divanetto. Divanetto parte di un'opera dedicata alla pena di morte e posto su un “patibolo” (il messaggio dell'opera, piccolo inciso a cui sono arrivata tardi, è di riflettere sulla pena di morte, penso). Lui mi dice che gli piacciono i miei capelli, che mi fanno “selvaggia”. Io gli rispondo che il termine selvaggio è un termine estremamente vuoto: in occidente il massimo del selvaggio è costituito dai leggins leopardati. E quando dico queste cose, dopo sono felice. Lui coglie pure. Il che depone a suo favore. Ma probabilmente mi sta assecondando solo.
Usciamo dal museo e, incredibile, mentre io fumo un'altra sigaretta lui non me la scrocca.
Camminiamo.
Camminiamo tanto.
Il mio poco cavaliere, sicuro della strada, finisce per perdersi in viette che non avevo mai neppure visto.
Fortunatamente, tra noi, qualcuno è abbastanza intelligente. E no, non è lui.
Quindi lo porto fino a una stazione della metropolitana. E lui si lascia condurre con il coraggio, pure, di dirmi a un certo punto che “lo sapeva benissimo pure lui dove andare”. Sì, una volta arrivati.
Alla stazione di Termini decidiamo di bere qualcosa. Questo è essere masochisti. O molto cortesi.
Io volevo solo tornare a casa e sono certa di essermelo scritto sul naso (n.d.r. sul naso perché c'è abbastanza spazio e poi, la fronte è coperta da una frangetta).
Il quarto tipo intanto mi elencava il numero delle ville che i suoi genitori possiedono nelle più svariate città. Italiane e estere.
Prendiamo due bottigliette d'acqua. Lui mi ostacola verso la cassa con tracotante convinzione. Io lo guardo stanca. Quando il barista gli dice il prezzo (un euro e sessanta, per inciso) lui cerca nel portafogli.
Cerca, cerca, cerca.
Immagino che potevamo rimaner a cercare anche per tutto il giorno. Prendo due euro e li passo al barista, che mi guarda con dispiacere.
Ci sediamo e lui mi versa l'acqua. Quanta cortesia. Oh, sì.
Lo liquido poco dopo, parando i suoi tentativi di “ci rivediamo domani” come meglio posso.
Arrivo a casa distrutta e anche leggermente arrabbiata. Ville, macchinoni e telefonissimi per poi farmi pagare pure l'acqua. Pure la sua. E mi va bene eh. Ma, almeno, abbi la cortesia, evitami qualche superlativo, qualche scenetta da superuomo e qualche recita.
Sotto casa mi aspetta un'amica che, dopo il mio racconto, mi canzona sui “dindini” e mi paga una birra. L'epilogo, quasi karmico, di una faccenda da dimenticarsi. In alcol.