Senza chi riceve non si può dare

15.04.2013 01:27

Ed è sempre più spesso domenica notte. Una cosa che mi infastidisce molto.

Nessuna voglia di dormire, un gatto che mi fa le fusa sulle gambe, una sigaretta appena spenta e tanti pensieri. Nessuno che mi vada.

Penso all'amicizia.
Cose che ho imparato in 24 anni: tutti ti sono amici, tutti sono amici più a loro stessi e delle proprie cose. Ed è pure giusto e ovvio che sia così. Non lo critico, non me ne rammarico. Solo che ci penso. Amico, forse, è una parola che non esiste. O che io gestisco male, meglio. Forse sarebbe più indicato compagni di strada. Definirebbe meglio e soprattutto in me non creerebbe sbagliate aspettative. Le aspettative sono un problema. Non tanto per una colpa dell'altra persona, quanto proprio per aver costruito qualcosa su un'altra persona e senza di lei. Compagni di strada credo mi risolverebbe dei problemini. Mi farebbe intuire l'effimero dei rapporti (che sono effimeri non per l'inadeguatezza delle persone, ma proprio perché, temo, siano costruiti così, si fondino su quello) senza diminuirli di importanza nella vita e, soprattutto, nella mia. Un compagno di strada è un tesoro, un amico è solo un'infruttuosa astrazione. E' come, “amico”, voler affibbiare un cartellino, un ruolo fisso dimenticandosi molto volontariamente che nell'esistenza non può esserci nulla di fisso. Compagno di strada invece non indica quanta strada, se tutta, se la metà, se un pezzetto trascurabile o se la maggior parte. Indica la strada, dà legittimità a tutti quelli che abbiamo incrociato, li rende diversi (ognuno per sé) e allo stesso tempo su uno stesso livello (l'averci accompagnati).

Penso al blog. Al mio precisamente.

Me lo diceva un'amica conosciuta qui quando il blog era un mondo personale e famigliare, tantissimo “casa” e allo stesso tempo aperto a tutti quelli che volevano trovarlo. Ora i blog sono cambiati. Di blog “di vita” ne sono rimasti pochi, gli altri son di cucina, dieta, politica, citazione d'autore. Un modo per “condividere”, in stile facebook, e non di comunicare. Condividere non richiede empatia, richiede solo una condivisione; comunicare richiede la condivisione ma anche l'empatia. Si può condividere anche solo mentalmente mentre per comunicare serve altro, serve cercare il lettore, amarlo, sentire che tra noi vive un pezzo di strada, una parola, una immagine, una curiosa combinazione di pensiero. E, dall'altro lato, dal lato lettore, serve amare chi scrive, cercare tra le sue righe qualcosa che ci assomigli, qualcosa che ci sia estraneo, qualcosa che si odi e che si ami.
E' una cosa che richiede energie, passione, dolore e gioia. Ma, stando a Tendo e io son d'accordo, più dolore, visto che quando sono felice, di solito esco.

Il mio è nato come un blog di vita e lo vorrebbe essere ancora. Con l'età e le qualche miriadi di delusioni che ho avuto facendo il grosso errore di incontrare i miei lettori e quelli che leggevo, mi accorgo di essere diventata, anche io, un po' più avara. Temo i giudizi, conto le visite, conto i commenti e perdo di vista la cosa che mi importa di più: io i miei lettori li amo veramente e voglio dare loro qualcosa. Non voglio mettergli in fila i miei pensieri per averne applausi, voglio dargli esattamente quello che loro vogliono e possono prendersi. A ogni lettore qualcosa di particolare, a ogni lettore una visione diversa anche se derivante dalle stesse parole.
Ogni tanto mi dimentico che scrivere per me è sempre stato dare. Non con quella finzione cattolica del dono, assolutamente, è dare senza intenzione, è dare perché ci si rivela.

Per questo, piccolo inciso, io ho quella cotta per Aldo Nove. Voi dovreste leggerlo su fabebook. Lui dà, perché è autentico, senza costruzioni. Risponde a quasi tutti i suoi commentatori, rimane male per una critica e ne parla per giorni, manda cuori e sorrisi ai commenti positivi. E' uno scrittore bellissimo e tanto raro.


Tornado a me mi accordo bene che ci sono post in cui non riesco a dare. Sarà che non mi rivelo più abbastanza, sarà che temo i lettori, sarà che ne conosco troppi. Colpa mia. L'indirizzo di un blog è molto più intimo della biancheria intima (cit. della mia Yax).


Penso a questo senso di frustrazione di stasera.
Mi chiedo da che dipenda. Ma poi smetto di pensarci perché la risposta la conosco e di indagarci dentro non ho voglia.


Penso al tempo che scorre e al suo modo di fare.
Venerdì sono stati tre anni dalla morte di mio padre. Niente isterismi. Ho costruito un palazzo su quella storia e posso parlarne per ore senza vedere quello che è successo, con gli occhi della mente, mai.
Di parlarne hanno tutti paura con me. Paura che io mi metta a piangere e che loro non abbiano la voglia, la capacità di consolarmi? Vorrei, quando sento quella specie di imbarazzo, quella fastidiosa aria da “oddio mo ne parla...” dire a tutti di tranquillizzarsi, che non piango per quella storia da tanto tempo e che, semmai me ne venisse voglia, di piangere per quello, ho un bravissimo psicologo che non si scandalizza. Mi infastidisce che si ignori la cosa, mi infastidisce che non se ne parli mai. Mi infastidisce il giorno della ricorrenza stare al cimitero e non poter ridere, dover quasi osservare un lutto, per quel giorno, che invece è lutto tutti i giorni, anche se ridessi o mi disperassi per le cose più disparate.
Mi infastidisce poi la finzione cattolica della morte. Ma quella solo a un livello intellettivo. Nella pratica io, quando una volta l'anno son costretta a ricordare in modo formale (con messa annessa quindi) sono impeccabile: affronto la messa con rispetto che non ho per la Chiesa ne, tanto meno, per l'idea di dio, mi alzo e abbasso al ritmo del prete, rimango in silenzio fino alla fine, fino al canto di chiusura compreso anche se gli altri iniziano a uscire.
Mi viene da ridere a pensare a tutti quelli che tre anni fa piangevano disperati al funerale di mio padre e che ho visto, negli anni successivi, lentamente diminuire a queste ricorrenze. Al funerale saremmo stati in 500 persone forse, me li ricordo tutti schierati al passaggio della bara e di noi tre dietro. Me li ricordo un anno dopo diminuiti, forse in una 50ina di persone. Poi diminuite ancora. Venerdì eravamo in 10, forse. Mi viene da ridere perché penso alle loro frasi: “oh cavoli, oggi c'è la messa per la morte di R., forse dovremmo andarci...” Ma poi, chi ha voglia di pensare alla morte? A quella di qualcuno che non sei tu e che ti ricorda, semplicemente, che si muore? Mi fanno ridere perché loro si sentono “manchevoli” di non essere venuti (seppur sollevati) mentre io son felice di vedere solo e soltanto la mia famiglia a cose del genere.

Mi fanno solo tanta rabbia, in tutto questo, quei messaggini o telefonatine che mi arrivano ai compleanni, a tutte le altre ricorrenze, come a mettersi a posto con la propria coscienza, come a far finta di esserci. Ma da lontano, tra un'occupazione e l'altra della propria impegnativa vita. Non che non sia giusto occuparsi della propria vita, mi chiedo solo perché volersi, per forza, passare da buoni oltre il ragionevole. Io se non si facessero sentire nemmeno ci penserei a criticarli. Che sia umano? Troppo umano.
Ipocrisie a buon mercato che dovrebbero fingere sul confezionamento, così le chiamo.

La cosa che trovo più atroce in tutto ciò è che vorrei, tantissimo, ritornare indietro di 3 anni fa. Anche a quella sera, anche a quella giornata. Io ero lì nei suoi ultimi momenti e, mi fa paura dirlo, ma mai nulla mi ha dato così tanto. Non so spiegarlo. E' stato atroce, doloroso, orribile ma allo stesso tempo è stato indelebile. Mi piacerebbe rivederlo mio padre e quella sera io non immaginavo cosa stesse per succedere quindi, forse, il ricordo è sfalsato da quella speranza che avevo, tutta positiva, che lui stesse meglio. E dal fatto che, anche se male, lui era ancora lì. Ma c'è qualcosa d'altro. C'è, nel fondo, nella mia devianza, anche quel trasporto, orribile quanto piacevole, degli ultimi istanti, delle ultime cose. E poi c'è il dolore, dolore che per quanto spaventoso, mi lega a lui, dolore che c'è perché lui moriva, dolore che, se mi spiego, esiste perché esisteva lui. Non so se mi spiego e quindi riprovo, è come se il mio dolore mi ricordasse che lui esisteva, ogni volta che lo provo so di provarlo perché lui non è una cosa che ho inventato ma un tassello della mia vita.

Io so di essere assurda badate bene, e quello che c'è di più preoccupante è che forse, anche se non lo do a vedere, nemmeno mi dispiace così tanto esserlo. Essere me. Ma questo rimanga tra noi.

Ho scritto una roba enorme. So che sarò anche rimproverata da qualche blogger di passaggio. Però potete leggerlo a rate volendo, e senza interessi.


(la foto è del ciliegio del mio giardino che proprio in questi giorni ha la sua bianchissima fioritura)

Senza chi riceve non si può dare

mi vengono in mente...

banditore | 16.04.2013

...un paio di battute; talvolta servono a chiarire: una è di Corrado Guzzanti che, parlando delle "chat" su "internet" diceva pressappoco: "mo' puoi parla' co' tutto er monno! Puro co' 'n'abborìggeno che sta in Australia! Il probblema però è: - abboriggeno: ma io e te, che sse dovemo di'?"
L'altra è una strofa di De André: "amico, amico fragile, se vuoi, potrò occuparmi un'ora al mese di te".
A mio avviso, le frasi significano che l'amicizia non si impone, non si crea e non è alcunché di magico: al di là di formalismi ed utopismi l'amicizia è un mercato di interesse: ci si vende come persone interessanti per gli altri e si acquistano altri, quando interessanti. Può dunque anche capitare di non potersi vendere a chi si vorrebbe, o di non voler acquistare qualcuno perché non ci interessa.
Uno dei sistemi di marketing di noi stessi più semplici è la leggerezza e l'indipendenza (non ho detto "sono" la leggerezza e... - perché c'è una certa identità tra le due), poi ci sono le telefonatine ai compleanni (alcune donne se ne fregano, ma provi un uomo - e perfino una donna - a non fargliele!) e tutti i pensieri gentili che non impegnano. E poi, naturalmente, la propria vita, esibita come un tazebao di interessi sociali, artistici, culturali, ma solo se vissuti praticamente.
Insomma, proprio un mercato, e senza con questo voler giudicare negativamente il fatto: la mia è solo una descrizione. Piccola. Così.

R: mi vengono in mente...

Silver Silvan | 16.04.2013

Ma che accidenti dice? E vero o no che con certe persone ci si sente a proprio agio e con altre è l'esatto contrario? Da cosa dipende, dal fatto che si vendano meglio? Ma che squallore.

P.S. Per quanto mi riguarda le persone con cui ci si trova a proprio agio sono quelle che hanno abbastanza personalità da non avere necessità di cambiare gli altri. Gli insicuri reagiscono malissimo, infatti, a questa opportunità. Sono abituati al contrario.

R: R: mi vengono in mente...

banditore | 17.04.2013

Dico, gentile Silver Silvan, che è proprio come dice lei: con certe persone... e con altre no. E perché, cos'è l' "agio"?
E' piacere. Siamo costruiti per quello, e lo ricerchiamo. Dunque, sebbene si possano usare locuzioni indeterminate per dare una presunta nobiltà ai nostri desideri, siamo ancora qui: il piacere.
Vede, il problema è nei termini: se chiamiamo "lussuria" la "piacevolezza", ci sembra di aver detto qualcosa di male, ma abbiamo detto la stessa cosa. Lei è stata urtata dal mio vocabolo: "mercato", come se vendere e comprare fosse cosa bassa, e indegna di essere usata nei rapporti umani, ma - in senso assoluto - la vita non è altro. "Vendere" significa proporre (sente come già cambia il sentimento: potere delle suggestioni)

R: R: R: mi vengono in mente...

bandirore | 17.04.2013

(per un errore, ho inviato prima di terminare):

e dunque è ciò che "dobbiamo" fare, altrimenti non abbiamo rapporti; si vende, o propone, una idea, un consiglio, una merce, la propria persona (alla donna, o uomo, della propria vita) e con i sentimenti connessi a questa proposta di sé.
Bisogna poi essere accettati, "comprati", ed acquistare a nostra volta l'altro per ciò che di quello ci piace.
Si pensa - limitatamente - che i sentimenti non siano legati al mercato e questa è una posizione manichea: il bene sta di là.
Ma la vita non è a comparti stagni e le sue leggi muovono ogni nostro atto; compartimentare, è atteggiamento religioso.
Ma se tutto è lo stesso - potrebbe obbiettarmi - come si fa, allora, a giudicare?
Semplice: quello che dirime non è il gesto (che è sempre lo stesso: vendere e comprare) è l'intenzione.

Un saluto.

R: R: R: R: mi vengono in mente...

Silver Silvan | 17.04.2013

Quindi fa il processo alle intenzioni, prendo atto.Boh, casca male, a me non interessa piacere a nessuno, mi riesce meglio il contrario. Per selezionare gli interlocutori è un metodo favoloso. Dunque parli per sé, perché non sono mai stata in vendita. Se anche lo fossi, il prezzo sarebbe troppo elevato. Mi ritengo fuori mercato, mettiamola così.

Buon usa e getta a pagamento. Di mercanzia ce n'è a iosa per lei e per tuuti quelli che la pensano come lei.

R: R: R: R: R: mi vengono in mente...

banditore | 20.04.2013

Anch'io prendo atto: di non essermi spiegato bene, evidentemente.

Non so

Silver Silvan | 16.04.2013

Non si può vivere in funzione degli altri. Si fa quello che si ha voglia di fare perché si ha voglia di farlo, di solito. Più spesso si fa quello che si deve fare e lo si subisce, proprio perché si deve. Almeno per me è così. A volte si fa quello che si pensa si debba fare, nel senso che è un'autoimposizione che si serve degli altri come pretesto al proprio fare. Esempio: scrivi in funzione dei lettori anche se non ne hai voglia. Ecco, credo che la maggio parte dei blog si basi su questo. Direi che si vede. Sono rari quelli in cui c'è davvero la voglia di stabilire un legame con chi legge. Si nota.

Il "tuo" Aldo Nove l'hai mai incontrato, Lady? Fossi in te, non lo farei, se vuoi continuare ad averne un'opinione decente. Per iscritto sembrano tutti così carini ...

R: Non so

O | 16.04.2013

perfino io? :-)

R: R: Non so

Silver Silvan | 16.04.2013

Odi, non fare il gigione. Sai benissimo che ho da sempre un debole per te. Sei tu che te la svigni puntualmente quando non sai cosa dire: ricordatelo, vecchio marpione.

Stranamente (?)

Micol | 15.04.2013

non ho avuto bisogno di un finanziamento in quest'ambito. quindi ho letto, tu, senza dilazioni e/o sconti.
E io non ci vedo niente di assurdo, sarà che anche io sono poco normale noi lo sappiamo, ma ho capito perfettamente la sensazione che hai provato a trasformare in parole e la ritengo una cosa normale, non so se giusta ma non è rilevante.

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